Periodo Edo (1603-1868), XVII secolo
Legno dipinto, laccato e dorato, 23 x 40 cm
Provenienza: Collezione Jacques and Galila Hollander
Nell'arte giapponese le raffigurazioni dell'elefante (zo), sculture e pitture, compaiono dall'inizio del periodo Heian (794-1185). Tutte sono invariabilmente connesse con il Buddhismo, ed in particolare con la rappresentazione di Samantabhadra (Fugen bosatsu), il bodhisattva protettore della verità e della meditazione. Nel Buddhismo mahayanico Samantabhadra è raffigurato insieme a Manjusri « (Monju bosatsu), il bodhisattva della saggezza, e i due solitamente fiancheggiano in una triade il Buddha originario. Fugen è inoltre venerato quale protettore del Sutra del Loto (Hokke-kyo), e in questa sua veste ha trovato grande seguito in Giappone, tra i seguaci delle sette Tendai (Tendai-shu) e Shingon (Shingon-shu), e tra gli adepti del monaco Nichiren (1222–1282). Al contrario di quanto è accaduto in altri paesi dell'Asia, in Giappone Fugen è stato oggetto anche di un culto autonomo, soprattutto nell'ambito della scuola Tendai; fu adorato dai membri della famiglia imperiale, e in special modo dalle donne, poiché proprio nel Sutra del Loto molta attenzione è prestata alla loro redenzione. Nei testi sacri antichi il bodhisattva Fugen viene descritto in groppa ad un elefante bianco, animale sacro nella tradizione indiana, dotato di sei zanne a simboleggiare la purezza dei sei organi di senso (occhi, orecchie, naso, lingua, corpo e mente). Gli artisti giapponesi che si cimentarono con l'iconografia di Samantabhadra trovarono ispirazione principalmente nelle opere di tema religioso importate dalla Cina. Soprattutto, a quelle si rifecero per la raffigurazione dell'elefante, poiché questo animale non viveva nell'arcipelago. E' pur vero che vi furono delle occasioni per vederlo dal vivo, ma esse furono alquanto rare (Creatures' Paradise. Animals in Art from the Kyoto National Museum, catalogo della mostra, Kyoto 2011, p. 97): il primo arrivo documentato di un pachiderma in Giappone risale infatti al giugno del 1408, durante lo shogunato di Ashikaga Yoshimochi (1386-1428), e quindi circa cinque secoli dopo la realizzazione delle prime raffigurazioni di Fugen bosatsu; un altro esemplare giunse a Kyoto nel luglio 1597, donato a Toyotomi Hideyoshi (1536-1598), e altri due nel 1728 trasportati su una nave proveniente dal Vietnam entrata nel porto di Nagasaki: solo uno dei due animali sopravvisse per affrontare il lungo viaggio verso Edo, suscitando lungo il tragitto lo stupore di tutti coloro i quali poterono ammirarlo. Non conoscendo la vera anatomia dell'elefante, ma avendo a disposizione come modelli solo dipinti cinesi (nei quali per di più il grande animale era raffigurato senza molta attinenza con la sua reale fisionomia poiché esso anche in Cina non aveva un suo habitat naturale), gli artisti giapponesi lo rappresentarono solitamente in maniera piuttosto fantasiosa. Questo incensiere esemplifica perfettamente la libera interpretazione delle forme di questo animale esotico. Tali sono le incongruenze che si possono trovare analogie financo con la rappresentazione del baku, un essere della mitologia giapponese che si presenta con corpo, proboscide e zanne di elefante, folta peluria e zampe di tigre, così come descritto in alcuni trattati enciclopedici del primo periodo Edo (1603-1868) (Netsuke. Sculture in palmo di mano. La raccolta Lanfranchi e opere da prestigiose collezioni internazionali, catalogo della mostra a cura di F. Morena, Cinisello Balsamo 2008, p. 133, n. 89). In questa scultura l'elefante sta posato su una base ottagonale: il corpo è talmente grande rispetto alle zampe che il ventre prominente sembra sfiorare il piano. Così come la proboscide, incastonata tra le zanne e la bocca semiaperta in una sorta di sorriso, amplificato dal taglio degli occhi socchiusi che emulano un'espressione di allegrezza. Le orecchie poi sono una completa invenzione, lontanissima dalla reale loro conformazione: sembrano delle lunghe maniche di abito, di forma tubolare, con tanto di pieghe a drappeggio. Il pachiderma indossa una complessa bardatura che tiene insieme la gualdrappa e l'imbracatura tra posteriore e redini sul capo. Sul dorso si innesta un grande fiore di loto, che è in realtà il coperchio dell'incensiere ricavato come incavo nel corpo dell'animale: le esalazioni profumate fuoriescono verso l'alto attraverso i fori del frutto, in una composizione ingegnosa e molto elegante. L'intera superficie esterna dell'incensiere è dipinta, laccata e dorata. Raffinate sono le esuberanti composizioni di fiori di peonia rese a tratti neri su fondo oro che ornano sia i lati della base sia la gualdrappa. Sottili girali dorati decorano anche l'imbracatura e le foglie del loto campite di lacca rossa. Il corpo dell'animale, dettagliato in certi particolari quali le pieghe della pelle, è rivestito di un pigmento biancastro che ha assunto col tempo e l'uso sfumature giallo-brune. Nonostante l'animale non si presenti con le sei zanne tipiche della cavalcatura di Fugen, la scelta del colore bianco per la pelle dell'elefante e la presenza del fiore di loto sul dorso sono elementi che fanno ipotizzare che questo incensiere abbia avuto fin dall'origine una qualche relazione con il culto per quel bodhisattva: molto probabilmente era sistemato in un'aula in cui era presente anche una sua icona. Si tratta di una tipologia di oggetto molto rara. Un altro incensiere non dissimile da questo si trova nel tempio Jorakuji. Un altro ancora è invece conservato nel Museum für Ostasiatische Kunst di Colonia: oltre alle minori dimensioni, quest'ultimo si distingue per la diversa posizione dell'animale che è raffigurato sdraiato e per la presenza di un coperchio in bronzo; per tecniche e stile è invece in tutto simile a questo (M. Shôno-Sládek, The Splendour of urushi. The Lacquer Art Collection at the Museum of East Asian Art, Cologne. Inventory Catalogue with Reflexions on Cultural History, Colonia 1994, pp. 194-195, n. 72). Il confronto con questi due esemplari consente di datare l'incensiere qui analizzato al XVII secolo, ovvero alla prima fase del periodo Edo. In quello stesso periodo il tema dell'elefante era sfruttato anche in altri campi dell'arte giapponese. Ad esempio, ancora nella scultura di ambito buddhista, come cavalcatura di Fugen: vedi la grande scultura in legno in coppia con Monju sul leone conservata nel British Museum di Londra, realizzata nella prima metà del Seicento da Koyu«, artista e restauratore tra i più dotati del suo tempo che lavorò nello stile di Unkei (1153-1224) (L. Smith – V. Harris – T. Clark, Japanese Art. Masterpieces in the British Museum, Londra 1990, pp. 36-37, n. 28: si notino le analogie nella resa dell'orecchie col nostro incensiere). O ancora, nella produzione ceramica di Arita dell'ultimo quarto del XVII secolo (Porcelain for Palaces. The Fashion for Japan in Europe 1650-1750, catalogo della mostra a cura di J. Ayers, O. Impey e J.V.G. Mallet, Londra 1990, pp. 178-179, nn. 159-161: in particolare si vedano le somiglianze del pezzo al n. 159 con l'incensiere nel Museum für Ostasiatische Kunst di Colonia) destinata al mercato dell'esportazione verso l'Europa.
Opera in vendita. Prezzo su richiesta. Numero di inventario: alt-883
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(Inv. #883)
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